L'arte di saper fallire - E come gestire il giudizio degli altri
"Se sapessi di poter affrontare qualsiasi situazione si presentasse sul tuo cammino, di che cosa avresti paura?"
Nella complessità della condizione umana, la paura del fallimento si annida tra le stanze meno frequentate dell'animo umano, lassù in soffitta al buio, dove non si sa bene cosa ci sia e dove probabilmente hanno ormai fatto il nido le vespe.
La paura del fallimento è un'ombra persistente che ci accompagna nelle vicende della vita, influenzando le nostre scelte e le nostre azioni.
Ciò che rende questa paura così travolgente, labirintica è il suo intrecciarsi con la paura del giudizio degli altri. Questo nutre una dinamica insidiosa che ci spinge nascondere le nostre fragilità, a soffocare la nostra autenticità e a mantenere una facciata di perfezione, temendo che la più piccola incrinatura nel nostro prestigio possa scatenare un effetto domino di disapprovazione sociale.
La prospettiva di commettere un errore e di essere giudicati duramente, derisi o esclusi dalla società può gettare un'oscurità sulla nostra sicurezza e autostima.
L'esperienza di ritrovarsi in una situazione di errore o di misunderstanding può essere avvertita come sgradevole o indesiderabile da molte persone. Commettere un errore può generare un senso di vergogna sociale e una paura di essere giudicati negativamente dagli altri. Tale situazione può causare una sensazione costante di instabilità e mancanza di equilibrio, generando una tendenza a essere più cauti e a camminare con cautela nella propria vita. Può essere paragonato a una forma di esibizione pubblica negativa, in cui ci si sente esposti e vulnerabili di fronte al giudizio e all'opinione altrui.
La walk of shame più celebre nelle serie tv
C’è una scena della serie tv “Il trono di spade” in cui la regina Cercei Lannister viene punita pubblicamente: del tutto denudata e rasata, è obbligata a sfilare per le vie della città, subendo le umiliazioni dei suoi (ex) sudditi che potevano anche lanciarle addosso qualsiasi cosa per “imbrattarla” ancora di più. Una “septa” (la parte femminile del clero che svolgeva la funzione di governante nelle famiglie dell'alta nobiltà.) camminava dietro di lei suonando una campana e ripetendo: “Shame!”, “vergogna” appunto.
La famosa “walk of shame”, il cammino della vergogna, deriva da una pratica molto diffusa nel Medioevo.
È stata una scena che a suo tempo mi ha colpito moltissimo perché, nonostante i connotati terribili della vicenda e i misfatti della protagonista (che fino ad allora era stata veramente sgradevole e altera), con fatica sono riuscita a tenere a freno uno strano senso di vergogna privato, come se fossi un po’ colpevole anch’io della sua triste tortura; la stessa attrice protagonista, Lena Headey, dichiarò la fatica che le costò girare quella scena, il grande disagio patito, nonostante la finzione.
Al di là del complesso personaggio inscenato, quella rappresentazione mi fece riflettere sui concetti tra loro sono strettamente connaturati:
senso di colpa;
paura del giudizio degli altri
vergogna.
La vergogna è comunemente configurata con l’arrossamento del viso (da non confondersi con il senso di pudore): quando qualcuno ci rivolge frasi di correzione, indipendentemente dal tono, può darsi che il nostro viso diventi rosso. Il rossore e il senso di vergogna spesso sono abbinati come effetti che vanno a braccetto.
Hai mai sperimentato il desiderio di scomparire a fronte delle parole di correzione (anche bonarie) di qualcuno in sede pubblica?
"La vergogna tende ad essere utilizzata come mezzo di controllo del comportamento.”
(Mara Sidoli, Vergogna e Ombra)
Una delle peggiori esperienze di apprendimento affettivo che può capitare di fare da piccoli è il rimprovero di un genitore (o di tutti e due) davanti a qualcuno:
“Di te non ci si può fidare!”
“Sai solo combinare guai!”
“Nasconditi!”
Frasi da far impallidire anche un saggio tibetano!
Eppure, in molte delle nostre educazioni familiari queste frasi erano la norma. Il bambino che ha imparato questo tipo di correzione a fronte di un errore, verosimilmente da grande si vergognerà terribilmente anche solo dell’eventualità di essere scoperto nell’errore; perciò, l’errore non rappresenta un modo sbagliato di fare qualcosa, che si può peraltro rettificare, correggere. Rappresenta una situazione pubblica in cui è meglio non ritrovarsi. Troppo grande l’umiliazione in gioco!
Da qui le schiere di permalosi che si incontrano a ogni piè sospinto. E lo dico con candore!
“È colpa mia…”
“Non sono capace di fare niente! Domani prendo un giorno di permesso così ci si dimenticherà presto della mia inettitudine…”
“Sarebbe meglio scomparire…”
Saranno questi i pensieri ricorrenti a fronte di situazioni di sbaglio.
Il carico delle nostre emozioni di tanti anni fa oggi si rivela estremamente difficile da sopportare, come allora del resto. Il bambino annichilito ha mantenuto il suo connotato di “pauroso” e “pieno di vergogna”. Non riesce a gestire il fallimento e lo abbina al senso di vergogna.
Lo shock subito dagli educatori fondamentali è stato troppo traumatico. Bisogna fare un reset. Con urgenza.
“Non riesco ad affrontare il fallimento”
Riuscire ad affrontare un fallimento può essere complesso se si scivola nella svista madornale di credere che “ho fallito” e “sono un fallito” siano la stessa cosa. NON LO SONO.
“Sono un fallito” è una denigrazione di se stessi orribile, ma a cui spesso ci si sottopone. Abbiniamo facilmente l’errore in situazioni della nostra vita personale o lavorativa al fallimento di sé; in realtà, se stai lavorando e commetti uno sbaglio, che sia tecnico, relazionale o legato a una conoscenza errata, questo errore riguarda l’ambito lavorativo; perché sminuire tutta la persona?
Imparare a gestire la possibilità di errore è importantissimo sia per la capacità lavorativa che per la crescita personale; che io sia un lavoratore dipendente, un libero professionista o un imprenditore, l’errore è vitale poiché determina l’evoluzione; il giorno in cui si commettono errori è il giorno in cui potenzialmente si può imparare di più. Non sto parlando di essere recidivi, quanto invece di fermarsi ad analizzare come superare quell’errore e di conseguenza migliorarsi da quel punto di vista.
Benedire l’errore è una faccenda realisticamente improbabile se da piccolo a fronte di una situazione di sbaglio ti è stato intimato addirittura di nasconderti.
Lo sperimentatore che è in te, il pioniere, il ricercatore di nuove soluzioni è stato legato a un palo nelle prigioni del senso di colpa; e se prova a venirne fuori con l’abilità della sua intelligenza relazionale, la paura del giudizio degli altri, le voci di derisione che perennemente abitano le sue orecchie lo terranno laggiù nel regno della vergogna.
È doloroso, genera fiamme fredde dietro la schiena, costringe a raggomitolarsi intorno al proprio senso di sconfitta: ti fa propendere per non intraprendere grandi imprese. Sbagliare è troppo doloroso.
Questo passaggio rappresenta il caos mentale che si instaura nella mente di una persona quando viene corretta, sia per un errore effettivamente commesso che solo presunto. A chi piace ricevere delle correzioni? Se la testa si chiude immancabilmente, è per la paura di soffrire in sostanza.
La tentazione irrazionale che ho io è di fare come questa rana…
Ma la parte razionale concede un po’ di tempo alla rana e dopo comprende che:
è questo passaggio che abbiamo bisogno di comprendere sempre meglio;
è qui che abbiamo bisogno di fare esercizio;
l’espressione “ho fallito” apre lo scenario di un nuovo apprendimento.
Abbandonare la smania di perfezionismo
“Se sapessi di poter affrontare qualsiasi situazione si presentasse sul tuo cammino, di che cosa avresti paura?”
(S. Jeffers, Conosci le tue paure e vincile) pag.21
Forse di niente.
Non avremmo paura più di niente se sviluppassimo la capacità di non dare retta alle opinioni degli altri, se capissimo che il senso di colpa è di un’inutilità pazzesca, che la vergogna ferma il mondo.
Eppure, la voglia di perfezionismo è sempre molto frequente, si confonde col senso di miglioramento possibile; se chiamiamo le cose con il loro nome approdiamo a questa considerazione: perfezionismo non è sinonimo di qualità, ma foriero della perdita di senno.
Perché dico questo?
Perché l’ambizione del perfezionista è di guadagnarsi approvazione e accettazione sociale: una schiavitù dannata. Desiderare a tutti i costi l’approvazione degli altri per approdare a un’accettazione sociale, magari estesa, è un sistema autodistruttivo e auto sabotante.
Autodistruttivo: le mie imprese dipendono dalla sembianza che mostro al pubblico; sempre perfette, inappuntabili, ho sempre un bel filtro Instagram che appiana le rughe, non mostra le occhiaie, fa vedere una persona che non può avere problemi. Il giorno in cui mostro una faccia umana innesco la bomba e salto con tutta la mia realtà.
Auto sabotante: edifico i presupposti del mio fallimento perché il perfezionismo non crea immedesimazione, ma allontanamento dagli altri; consideriamo le persone perfette come lontane e irraggiungibili, troppo distanti dalla nostra realtà. Senza immedesimazione non c’è partecipazione di intenti. È proprio nella miseria invece che ci riconosciamo!
Anche gli eroi soffrono e scivolano. Tant’è vero che da anni ormai anche la Marvel sfodera eroi molto umani, che soffrono, si feriscono, sono maldestri (e qualcuno muore pure); il mito del super eroe è definitivamente, per nostra fortuna, tramontato.
Il fallimento non deve essere visto come un segno di vergogna, ma come un trampolino di apprendimento e crescita personale. Liberarci dalle catene del giudizio esterno è un passo fondamentale per abbracciare il nostro percorso individuale e per trovare la forza di rischiare, imparando dagli errori e costruendo una versione migliore di noi stessi.
Audentes fortuna iuvat.
Buona settimana!
Mariangela Lecci
Libri utili sull’argomento
Elisabeth Day, L’arte di saper fallire, Superbeat
Susan Jeffers, Conosci le tue paure e vincile, Mondadori
Post di approfondimento che ho scritto
Come avere fiducia in se stessi – Psicologia e strategia
Paura del giudizio degli altri – Gestire le aspettative
Come sviluppare autonomia personale (e smettere di aspettare gli altri)
👩 Chi sono e cosa posso fare per te
Mi chiamo Mariangela Lecci e faccio il consulente di comunicazione e marketing, sono docente e coach. Il mio quartier generale è a Cattolica, in Emilia-Romagna, vicino al mare.
Il mio impegno è dedicato a sostenere le piccole aziende e i liberi professionisti nei loro percorsi di crescita, sia a livello professionale che personale.
Questa newsletter è un mio strumento operativo con cui resto in comunicazione con la mia community offrendo ispirazioni, senza disdegnare aggiornamenti e operatività.
La scrivo ogni lunedì. Se vuoi che un particolare tema venga trattato, fammelo sapere scrivendomi a info@mariangelalecci.it
👉Per scoprire di più sulla mia attività, ti invito a visitare il mio sito web: Mariangelalecci.it
👉Puoi trovare ulteriori contenuti interessanti sui temi di questa newsletter anche nel mio blog: https://mariangelalecci.it/blog
Grazie di essere parte di questa community!
Se non sei ancora iscritto a questa newsletter, puoi farlo ora da qui:
Se non sei ancora iscritto a questa newsletter, puoi farlo cliccando il pulsante qui sotto.